giovedì 16 luglio 2009

LA BICICLETTA DI PIETRO


Pietro era un ragazzino sveglio nonostante la sua età. Aveva dovuto crescere in fretta da, quando era stato messo in collegio dopo la terza elementare. La sua fuga da quel posto era pensare costantemente a quando la domenica sarebbero arrivati i suoi e finalmente avrebbe preso la sua adorata bici da corsa per fare di nuovo il giro del lago di Iseo, per vedere se si fosse migliorato di qualche secondo rispetto alla volta precedente. Era così preso a battere ogni volta il record precedente che alcune volte si dimenticava perfino che ad accelerare troppo in curva, rischiava di non tenere la bicicletta. Come quella volta che dopo aver rischiato nella prima curva, nella seconda perse il controllo e finì rovinosamente dentro il lago. La bicicletta per fortuna sua restò sul selciato, ma si graffiò tutta. Lui invece oltre a farsi un bel bagno fuori stagione si sbucciò tutte le ginocchia. Ma niente fermava il piccolo Pietro, non certo una leggera pelatura, la preoccupazione ora era ritornare dai suoi che lo aspettavano seduti su una panchina intenti a mangiare il primo gelato di stagione e non farsi beccare da suo padre. Sicuramente allora sì che le avrebbe prese di santa ragione e sarebbe stato ancora più umiliante della caduta nel lago. Recuperata e rispolverata la bici, raddrizzato il manubrio, rimonta sul sellino con già la scusa pronta nel caso suo padre si fosse accorto di qualcosa. Tanto per cominciare, prima di finire di nuovo il giro del lago, l’aria lo avrebbe di certo asciugato, quindi almeno in quello sarebbe stato salvo e poi lui le bugie le sapeva raccontare bene, in collegio era grazie a quelle che sopravviveva. Sì, l’aveva trovata, avrebbe detto che una macchina gli aveva tagliato la strada e che lui per schivarla aveva finito per perdere il controllo della bici ed era caduto. Fortunatamente però si era subito rialzato senza nessun danno per lui! Mentre pedalava rilassato, ormai non aveva più un record da battere e poi più passava il tempo e più si asciugava i vestiti, continuava a ripassare mentalmente la scusa, ormai era diventata anche per lui la verità, si stava convincendo a furia di ripetersela. Arrivò tutto soddisfatto vicino alla panchina dove aveva lasciato i suoi qualche ora prima, ma appena si avvicinò a suo padre, si senti arrivare uno schiaffo in pieno viso che lo tramortì, non tanto per il dolore ma per la sorpresa del gesto. Suo padre lo guardava con aria di sfida, lo sfidava a dirgli quella fatidica bugia. Ma come faceva a sapere come erano andate le cose, come era possibile che lui sapesse sempre tutto? E se lo sapeva perché non era preoccupato per lui, se si era fatto male, se si era spaventato? Balbettò qualcosa ma gli arrivò un altro scappellotto. Gli scendevano le lacrime dalla rabbia, suo padre non lo faceva parlare, non voleva neanche sapere la sua versione dei fatti. Prese la bici e la infilò in macchina senza neanche guardarlo, tanto era il nervoso. Gli faceva male il sedere per la botta ma il suo orgoglio era ferito ancor di più. Per tutto il tragitto dal lago al collegio restò zitto a rimuginare sull’accaduto senza trovare però il bandolo delle matassa…gli piaceva usare questo detto! Sicuramente l’indomani avrebbe avuto un bel livido sulla schiena e delle belle croste sulle ginocchia, ma voleva capire come suo padre aveva compreso lo svolgere dei fatti. Arrivati a destinazione, scese dalla macchina un po’ indolenzito e senza salutare si diresse all’entrata del portone. Fu li che udì le prime parole di suo padre, “ Quante volte ti ho detto di non frenare col freno davanti che è pericoloso!” Era vero, era caduto per quello, la troppa velocità e una toccatina al freno, ma a quello sbagliato. L’errore era lì, e lui lo aveva capito senza che glielo si dicesse con una spudorata bugia. La settimana dopo, quando si riaprirono le porte del “carcere” per la solita domenica in famiglia, il padre lo aspettava in macchina con la bici nel bagagliaio e un “caschetto” sul sedile. “ Non potrò evitare che tu ti sbucci le ginocchia, ma almeno la testa dura che ti ritrovi la salvaguardiamo!” disse.

sabato 27 giugno 2009

UN'ORA DI LIBERTA'


UN'ORA DI LIBERTA'

Ecco mi sono persa, colpa della fretta che non mi ha fatto guardare bene il numero dell’autobus. Ma dove mi trovo? Scendo e mi guardo intorno cercando una figura famigliare, che non deve essere per forza una persona ma anche un palazzo, una via.

M’incammino non so dove ma mi lascio trasportare dalla fiumana di gente, da qualche parte andrà, no? Alcuni mi sorpassano prendendomi dentro con le loro spalle, ma dove correte tanto il nostro destino è già segnato, non c’è bisogno di anticiparlo.
Arrivo a un incrocio.

E adesso dove vado. Ambarabbà cicci e coccò, va beh mi dirigo a destra c’è un parco con dei cani che corrono, magari mi metto a guardarli. Abbaiano e si rincorrono, sembrano felici, anche se sono dentro ad un recinto che ne limita la loro libertà. Mi guardo in giro, i padroni parlano tra di loro magari raccontandosi come il loro amico fedele è il più intelligente del mondo e ridendo alle marachelle che ha combinato quando era un cucciolo.

Come se capissero che stanno parlando di loro a turno i cani si avvicinano ai padroni scodinzolando.
Ho deciso, mi siedo su una panchina. Scelgo quella più pulita e meno scassata e mi butto sopra. Sento uno strano cigolio ma non cado. Incrocio le gambe e guardo davanti a me, senza metà, nel vuoto. La vista mi si annebbia, chiudo un secondo gli occhi e …

Li riapro, guardo l’orologio sono le 17.45 è un’ora che sono salita su quel tram. Mi alzo a fatica perché oramai, dopo aver tenuto per tanto la stessa posizione, non sento più le gambe. Do un’ultima occhiata al recinto dei cani e faccio il percorso inverso.

Attraverso l’incrocio e mi riporto pari pari davanti alla fermata da dove ero scesa.
Avevo giusto bisogno di un’ora di stop. Di andare dove niente mi ricordasse qualcosa, dove, anche se vicino a casa, mi sentissi dalla parte opposta del mondo.

mercoledì 10 giugno 2009

SUL METRO


Come ogni lunedì, prendevo il metrò per andare dal mio psicologo. M’infilavo le cuffiette nelle orecchie e mi isolavo dal mondo. Il mondo era in quel momento la musica, che suonava a caso nel mio Ipod.

Ogni canzone, aveva i suoi ricordi felici o tristi. Sarebbe stato il caso quindi a decidere di che umore sarei arrivata dall’analista. Come il solito non riuscivo a stare ferma con la musica nelle orecchie, specialmente quando arrivava una canzone rock.

Mentre aspettavo che arrivasse il metro, mi dondolavo sulle gambe e canticchiavo a bassa voce, almeno lo pensavo ma, delle occhiate che mi arrivavano, sicuramente, stavo facendo la solita figura … ma chi se ne fregava, se qualcuno mi avesse detto qualcosa, ero scusata, andavo o non andavo dal terapista?

Avvertii che stava arrivando la metro dal vento che si stava formando.
Mi piaceva mettermi con lo sguardo in corrispondenza dell’arrivo della carrozza e sentire l’aria fresca arrivarmi sul viso. Mi sembrava che il treno mi arrivasse addosso. Non riuscivo a capire con quale coraggio o pazzia, dipende dai punti di vista, la gente si uccidesse buttandosi sotto! Ogni volta scommettevo con me stessa di essere nel punto esatto dell’apertura delle porte e ogni volta ero sempre nel punto sbagliato.
Meno male che non giocavo a soldi!

Aspettai che fosse il mio turno e salii. La carrozza era come il solito piena, gente che dopo una giornata di lavoro se ne tornava a casa. Facce stanche, bianche nonostante fosse passata da poco l’estate. Sì, perché basta un giorno di lavoro per farti perdere il colore e lo smalto dell’estate! La maggior parte, come me, era immersa nei pensieri ascoltando musica.

Era un modo di rifugiarsi in se stessi, anche un modo per non socializzare, perché nessuno attacca bottone con te se stai con delle cuffiette nelle orecchie. Riuscii a mettermi vicino a un palo. Mi appoggiai tenendomelo quasi in mezzo alle gambe. Dopo poco mi resi conto che sembravo una ballerina di lap dance, stavo ballando davanti al palo catturata dalla mia musica. Mi sentii osservata. Un ragazzo mi guardava con un bellissimo sorriso e scuoteva la testa.

Gli sorrisi a mia volta e non curante andai avanti nella mia danza. Sentivo il suo sguardo su di me. Qualche volta lo riuscivo anche a vedere nel riflesso del finestrino davanti a me e giravo lo sguardo verso lui per sorridergli.

Mi misi a suonare la batteria con le dita, stando attenta a non tirare un pugno a nessuno. Una signora seduta vicino all’uscita mi guardava con ribrezzo. “Goditi la vita” mormorai a bassa voce.

Io sono sempre stata dell’idea che se non fai del male a nessuno e vuoi divertirti perché non farlo.

Forse era anche per quello che adesso, andava dallo psicologo … la troppa voglia di divertirsi, il bisogno di provare quello che mi era mancato, la paura che tutto potesse finire da un momento all’altro mi stava portando a sperimentare tutto, a portare il mio corpo al collasso. Dovevo assolutamente recuperare il tempo perso … non sapevo se domani avrei potuto fare ancora quello e allora … si fa oggi!

Non diedi molto caso alle occhiatacce della signora e mi concentrai sul ragazzo che mi guardava.
Alto, moro, magro, non bello ma con un bel viso comunicativo. Ci fissavamo a distanza sorridendoci complici. Io continuando la mia danza, vicino al palo e lui soddisfatto forse, di trovare una persona che se la rideva e divertiva incurante della gente vicina.

Alla prossima fermata purtroppo sarei dovuta scendere. Mi girai verso la porta e quindi anche vicino alla signora, che con aria sdegnata guardava dalla parte opposta.

La metro fece una frenata improvvisa ed io le caddi quasi in braccio. Mi misi a ridere, chiedendo scusa e quando si aprirono le porte, fui la prima a uscire. Camminavo per la banchina agitando le braccia a tempo di musica, quando il treno riprese la sua marcia.

Avevo già percorso dei metri a piedi e non sapevo più qual era il mio vagone, ma quando girai lo sguardo lo vidi, il ragazzo si era spostato verso le porte dell’uscita e i nostri sguardi s’incrociarono per l’ultima volta.

Prima di perderci di vista, lui alzò la mano e sollevò il pollice. Poi lo vidi sparire per sempre. Sicuramente oggi la seduta sarebbe stata divertente, avevo sempre basato l’umore da questo viaggio pre terapia!

venerdì 5 giugno 2009

Blu, mare cielo e motorino


Eccomi, finalmente sono arrivata nella famosissima Mykonos, l’isola del divertimento, la più chiacchierata tra tutte le isole greche! Quando ho detto agli amici che quest’estate sarei venuta qua, tutti mi hanno raccontato le loro esperienze passate e già ancora prima di partire mi è sembrata di conoscerla, l’ho sentita mia, con tutta la sua allegria: Mykonos, isola cosmopolita che accoglie migliaia di turisti ogni anno, famosa anche per i suoi numerosi locali e per le tante discoteche che nei mesi estivi, accendono la notte fino al chiarore dell’alba.
Ancora prima di atterrare mi accorgo che soffia un fortissimo vento perché la poca vegetazione dell’isola si sposta con violenza e l’aereo fa fatica a tenere una posizione stabile. Meno male, almeno non soffrirò di certo il caldo. L’isola al contrario di come me l’ aspettavo non è verde, è abbastanza arida e montuosa. Mi colpiscono le tante chiesette bianche con le cupole rosse e cappelle votive che sono sparse sulle collinette, sembra che neanche le strade riescano a raggiungerle.
Mi ricorda un po’ Lampedusa, anche se lì esiste solo un albero in tutta l’isola.
Profumo di mare, il vento lo fa arrivare alle mie narici. Che bello ho proprio voglia di arrivare subito alla spiaggia e di fare un bagno, anche se sono le sette di sera.
Ho sempre pensato che fosse l’ora più bella per stare in spiaggia, il mare è calmo, la confusione dei bagnanti è terminata e l’acqua è calda. Non che sia importante questo per me perché io faccio il bagno anche con 15 gradi. Il sole che tramonta sul mare rende tutto il paesaggio più bello. Ma quanto ci mette questo pullman ad arrivare al villaggio, su queste strade, un saliscendi, continue curve, quando arriviamo non posso di certo scendere e buttarmi in acqua se c’è da andare a mangiare. Incontriamo lungo il tragitto una marea di persone che viaggiano in motorino e quad, vanno come dei pazzi senza casco e con questo vento che non ti fa stare in strada mi sembrano un po’ folli, ma è il bello della vacanza, fare cose che normalmente non faresti. Mi giro verso mio marito, gli faccio un sorriso come per dire “domani anche noi, eh” e lui mi guarda male, il solito prudente! Finalmente eccoci all’imbocco del villaggio. Guardo la spiaggia, ci sono solo due coppie che giocano a beachvolley e una famiglia che sta raccogliendo le ultime carabattole, per tornare in stanza. Bene, la spiaggia ed il mare sono tutto miei, devo solo sgattaiolare appena si apriranno le porte dell’autobus.
Ma dove ho la testa? Non ho il costume, è tutto in valigia e adesso prima che ci consegnino le chiavi della camera passerà un’eternità! Non mi arrendo, mai arrendersi! Guardo mio marito mostrandogli il più bel sorriso che posso fare e gli dico di aspettare lui l’assegnazione della stanza che nel frattempo io vado almeno a sentire se l’acqua è fredda, se la sabbia è soffice, i tanti se di una bambina vogliosa di mare. Ma lui sa come sono, non ho bisogno di convincerlo. In fin dei conti mi ha sposata anche per questo, per la mia esuberanza infantile. Ogni volta che andiamo al mare lo sa che devo sentire l’acqua e se anche siamo in inverno e non posso toccarla con i piedi senza provocarmi una congestione, devo sfiorarla almeno con la mano. Non c’è nessuno ora in spiaggia, ma io mi sento lo stesso osservata, magari qualcuno mi sta guardando dalla sua terrazza, affacciato a godersi il tramonto e si domanda chi sia quella matta con le scarpe in mano che cammina sul bagnasciuga….ma quante domande che mi faccio, goditi il tuo momento tanto desiderato e non pensare a nessuno, guarda che belle le luci delle barche che escono per la pesca notturna, pensa a come sia rilassante sentire i gabbiani e lo sciabordio delle onde…non pensare ad altro! Accipicchia….mio marito! Vedi che a qualcosa dovevo pur pensare!
“Quello lì blu voglio!” Sull’onda dell’entusiasmo la mattina corriamo a prendere un motorino…blu naturalmente, come il cielo ed il mare di Mykonos. All’inizio decidiamo anche noi di non usare i caschi, in barba alla legge passata da poco tempo in Italia sull’obbligo del casco anche ai maggiorenni, poi quando ci rendiamo conto che il vento ci sposta e i villeggianti ed abitanti dell’isola guidano da far rizzare i capelli (in effetti, le spiagge sono piene di ragazzi con le braccia e le gambe fasciate), ci fermiamo e come bravi scolaretti ci infiliamo i jet. Abbiamo preso la pianta dell’isola alla reception e abbiamo tracciato un tragitto abbastanza semplice, primo per non perdersi e secondo per riuscire a rientrare in tempo per il pranzo. Ci lasciamo le famose Paradise e Super Paradise, le spiagge del divertimento, per un altro giorno, anzi per un'altra ora, la famosa happy hour, l’ora dell’aperitivo, l’ora del casino più totale. Ci dirigiamo così verso una delle decine di spiagge libere, anche se a Mykonos e non so se è un’usanza greca, le spiagge davanti all’albergo o al villaggio sono libere e chiunque può affittarsi il suo ombrellone e sdraio per la giornata. Ma dove sono finiti tutti? C’è pochissima gente in spiaggia. La verità è che la notte si divertono tutti e che la giornata comincia nella tarda mattinata o nel primo pomeriggio e quindi le spiagge alle dieci del mattino sono ancora deserte. Ci sono, in effetti, delle persone che distese sugli asciugamani dormono ancora, magari hanno passato la notte lì nella tenda dietro al dosso e si sono alzati solo per prendere il posto in prima fila al mare! Sono nudi e non so come mai sono io che mi sento a disagio nell’essere in costume. Mykonos è anche famosa perché ci viene gente da ogni parte del mondo, indipendentemente dalle preferenze sessuali. Ci sono sia coppie maschili che femminili. Bene almeno non mi sento sola.
L’acqua è uno splendore, ancora un po’ fresca, ma a colazione sono stata leggera, solo il famoso yogurt greco con un etto di miele, che mi butto subito, tanto se sto male qualcuno mi verrà a salvare, no?
Il pomeriggio, dopo pranzo, ci dirigiamo verso la città per vedere i famosi mulini a vento e le case bianche. Stravagante ed eccessiva di notte, elegante ed affascinante di giorno. I vicoli, con i bordi delle pietre pitturate di bianco ogni giorno per il passare costante della gente che di notte le cancella, che conducono al porto, si dividono in una ragnatela tutta da scoprire e da capire. Quante volte sono passata davanti allo stesso negozio giurando che di lì non eravamo mai passati. Decido che sinistra è la via del ritorno ma ancora una volta sbaglio, ma le donne non avevano un sesto senso? Sì, ma forse per altro. Ci ritroviamo nella piccola Venezia, pochi locali, pub e taverne affacciate direttamente sull’acqua arredati con colori brillanti con la vista sui cinque famosi mulini, che simboleggiano l’isola, anche sulle cartoline illustrate. C’è un simpaticissimo cane, tipo spinone, che ci segue e che si butta tra le onde appena arriviamo davanti alla spiaggia. Mi metto a ridere. Mi ricorda tanto me stessa e così gli scatto un paio di foto ricordo. Più della metà delle foto del viaggio sono dedicate alla moltitudine di gatti che popolano l’isola ed io da brava “gattara” cerco di non perdermene neanche uno. Rientriamo nella via principale: ovunque si trovano taverne tradizionali, ristoranti con cucina locale ed internazionale, pub e discoteche tutte chiuse però. La vita in città inizia più tardi e si passa quindi dalla quiete più assoluta al caos, dove se ti perdi di vista un secondo ti lasci trasportare dall’onda della gente e ti ritrovi dall’altra parte della cittadina in un batter d’occhio. La notte, lo scopo della permanenza è spendere, fare salotto, ballare, trasgredire. Infatti, basta prendere uno dei mille volantini che cercano di rifilarti per non perdersi l’ultima festa organizzata della serata, ma mi sono accorta che a noi non lo danno mai, magari abbiamo la faccia da pantofolai. Anche i pellicani, famosi in tutto il mondo per essere gli stessi ancora in vita conosciuti dal primo turista dell’isola, uno di questi il fotografatissimo Pedro, ma quanto vivono i pellicani, qualcuno lo sa… di giorno se ne stanno all’ombra di un albero al riparo dalla calura, ma di notte sono vispi come pipistrelli, anche loro si lasciano coinvolgere e trasportare dall’atmosfera festosa e libertina della città. Ma come, nel pomeriggio erano solo quattro e adesso ne ho già contati otto è possibile che siano più veloci di me a spostarsi dal porto al parcheggio del bus!
Giusto, il bus affollatissimo e con orari assurdi per l’isola, alle 23 ultima corsa. Ma come, tutto qua vive per la notte e tu mi togli uno dei mezzi di trasporto! Non ho mai capito se esistessero dei posti fissi dove aspettarli tranne un vero e proprio capolinea, o fine corsa, perché l’autista si fermava quando vedeva qualcuno al bordo della strada che gli faceva un piccolo gesto anche con un solo dito della mano, magari erano amici che raccattava ogni sera anche solo per dieci metri. Nella linea di pullman che abbiamo preso quando i motorini non erano disponibili, il guidatore aveva messo, attaccato al parabrezza, il poster della squadra di calcio della Grecia vincitrice degli ultimi Europei. Non ci credo ancora che sia successo, la Grecia, ma chi giocava, non mi viene in mente neanche un giocatore famoso, si forse si non c’era un tale che giocava nell’Inter,? Boh! La guardavo ogni volta e mi sembrava che fosse passata un’eternità, ma era successo solo l’anno prima. Il fatto era che il poster aveva perso i suoi colori originali e quindi sembrava di guardare una vecchia fotografia in bianco e nero ricordando tempi passati, lontani, con nostalgia e sicuramente per quel che riguarda i greci, secondo me, la consapevolezza che la storia non si sarebbe ripetuta presto.
Tra bus e motorino l’isola non ci scappa, giriamo ogni posto percorribile e visitabile in lungo ed in largo, su e giù e non sono due parole buttate a caso. Se non ci siete stati non potete capire le tante salite fatte dove il motorino in due arranca e le discese col freno tirato cui ci siamo dovuti abituare subito. Beh se devo essere onesta io in discesa scendevo e raggiungevo mio marito di corsa per non rischiare di cadere, beh invece in salita lui dava la colpa al mio peso perché il motorino non ce la faceva ed allora scendevo lo stesso. Secondo me si vendicava per tutte le volte che gli ho fatto sbagliare strada. Alla fine di una di queste interminabili discese, fatte da me al trotto, per dimostrare che ero in piena prestanza fisica, si trovava una delle due famosissime spiagge: Super Paradise. Parcheggiamo il motorino dove troviamo spazio, cioè ad un km di distanza, per la moltitudine di veicoli che ci sono. Già da quella distanza si sente il riecheggiare della musica, mi guardo in giro e vedo che nelle vicinanze ci sono anche delle case, ma come faranno a dormire mai questi la notte se alle sei del pomeriggio c’è già questa confusione! Ogni bar della spiaggia ha la sua musica, ogni locale il suo deejay che anima la festa con damigelle che ballano sui tavoli. Si sente odore di birra, di vino, di qualsiasi cosa sia alcolico e anche io non sono da meno e mi butto nella mischia con la mia birra in una mano e con l’altra tengo il tempo come tutti sopra la mia testa… in gergo, mano a paletta. Le birre diventano tre ma cosa importa l’atmosfera è di divertimento puro, momenti di pura follia si mischiano a sensazioni forti al limite del collasso, beh qualcuno è anche collassato ma l’importante è che in questo momento lo faccia lontano da me, ma non per menefreghismo ma perché potrei seguirlo a ruota. Quando lasciamo senza più forze il paese della cuccagna mi trovo a domandarmi come facciano tutte quelle persone a resistere tutte le sere in quelle condizioni. Bisogna avere un fisico “bestiale”, dosare le forze giorno per giorno per reggere una vacanza di alcool e musica a tutto volume, bisogna magari essere meno pantofolai…ma cosa dico, proprio io che da più giovane stavo in discoteca fino a mattino e bevevo come una spugna! Già mi sono risposta da sola, da giovane, non che sia già passata di età ma ormai quando è da un po’ che non trasgredisci perdi l’abitudine e forse hanno fatto bene i miei amici a visitare Mykonos da studenti, quando ancora tutto era permesso, e comunque quando il fisico reggeva ancora una bottiglia di birra, una caipirinha, un bicchiere di vino ed una vodka…se ci penso mi viene la nausea, adesso. Sono tornata da poco da Mykonos, ma il mio cuore è rimasto lì, sole, mare divertimenti. Divertimenti si, anche se non sono stata capace di sfruttarli al meglio. Mi preparo, adesso lo so… sarà per la prossima volta!

mercoledì 22 aprile 2009

IL DETECTIVE


Ho sempre voluto fare il detective nella vita e finalmente era giunto il mio momento. Pochi mesi dopo la nascita sono stato portato ad una famiglia che mi ha accolto con molto calore ma, in me c’è ancora il ricordo della mamma. Non mi do pace al suo pensiero anche se la famiglia che mi ha adottato, non mi ha fatto mancare mai niente: cibo, giocattoli, coccole e una bella cuccia tutta per me da non condividere con altri fratelli. Sì certo una cuccia, cosa avevate capito, sono un gatto, adottato da una famiglia con una casa piena di nascondigli per i miei agguati e con un gran terrazzo dove ritrovare gli odori della natura cui ero stato abituato, anche se per poco. Per essere un gatto che è nato in una cascina alle porte di Milano non mi è poi andata così male. In città con un terrazzo dove cacciare uccellini e cavallette come quando ero in campagna. Una vera cuccagna! Entriamo ora nel vivo del problema. Ho sempre avuto dalla nascita due “cosine”, che mi hanno sempre fatto compagnia…se ci sono nato vuol dire che facevano parte di me e perché adesso mi ritrovo senza? Un bel giorno, si fa per dire, andiamo tutti da un brutto signore con un ridicolo vestito verde. La giornata era già iniziata male: non mi piace andare dentro la cesta, non mi piace andare in macchina per Milano perché ci sono troppi rumori fastidiosi per le mie orecchie delicate e, patatrac! Ad un certo momento un improvviso sonno…sta di fatto che quando mi risveglio mi ritrovo, anzi non mi trovo più i due miei amici di sempre. Devo dire che l’ho presa proprio male. Nonostante non avessi più niente, mi faceva male tutto e mi sentivo anche un po’ imbambolato. Quando finalmente mi sono ripreso ho deciso che dovevo scoprire la verità. E’ iniziata da poco la primavera e quindi passo più tempo sul terrazzo ad annusare i fiori che la mia amica umana pianta e a cercare di fare amicizia con i gatti dei terrazzi vicini. Al piano di sopra c’è un gattone nero molto tranquillo che non vuole troppo socializzare mentre in quello vicino, sullo stesso piano, è arrivata da poco una gatta siamese molto carina e desiderosa di fare amicizia ma, secondo me, in questo periodo non sta troppo bene perché è da qualche tempo che continua a miagolare sia di giorno sia di notte, cercando sempre la mia compagnia. Sì simpatica, carina ma io preferisco cacciare le mosche o giocare con i miei peluches. Ho provato a familiarizzare con i piani alti e a chiedere al “nerone” se ne sapesse il motivo, anche perché è la prima volta che lo vedo così agitato in vita sua, e a questo punto, per i rapporti di buon vicinato, ho chiesto anche a lui cosa stesse succedendogli ma non mi ha neanche dato retta. Me lo aveva detto la mamma che a Milano sono tutti bauscia e pensano solo a se stessi. Continua a camminare sul cornicione del terrazzo avanti indietro come un matto cercando un modo per balzare giù ed io dal basso lo vedo, lo vedo e… che cosa vedono i miei super occhi da detective. Lui ha ancora i suoi “cosini”. Come mai lui sì e io no. Cosa mai serviranno…ma io alla fine ci arriverò a scoprire la verità se no che detective sarei… se ci fosse stata la mia mamma sicuramente mi avrebbe dato una risposta, è proprio vero che in città sono più riservati!

mercoledì 8 aprile 2009

IL DESIDERIO


Stavo percorrendo una stradina di montagna, piena di curve e di buche. Gli ammortizzatori della mia macchina chiedevano disperatamente pietà. Nonostante tutto, il panorama toglieva il fiato. Gli abeti ai lati della strada davano una luce particolare al percorso, quando il sole riusciva a filtrare, si notavano i raggi che ti colpivano con violenza. Abbassai il finestrino e l’aria frizzante mi svegliò. Non che stessi dormendo ma ero rilassata e mi godevo il panorama. Rallentai per assaporarne il sapore, il profumo. C’era un misto di aromi di funghi, resina e muschio. Chissà quanti porcini erano ben nascosti nel sottobosco! Rallentai ancora di più per cercare di vedere in mezzo alla boscaglia se c’erano animali. L’orario era perfetto, le cinque del pomeriggio, il sole non più caldo e poca gente in giro. Lo desideravo tanto. Ero così intenta a osservare ogni minimo movimento che a momenti andai a sbattere contro un semaforo. Ma che cavolo ci faceva un semaforo su questa strada? Mi accorsi solo dopo che c’era anche un cartello che indicava dei lavori a pochi km. Sicuramente la carreggiata era stata ristretta e per permettere il passaggio delle macchine avevano messo uno di quei semafori che alternano il passaggio. Sfortuna vuole che fosse rosso per me. Inizia a guardare avanti a me, ma non vedevo arrivare neanche una macchina. Ma non potevano mettere un omino a dirigere il traffico, così faceva passare le macchine che c’erano al posto di questo stramaledetto semaforo! Spensi il motore e guardai l’orologio. Erano passati già cinque minuti ed era sempre rosso. Mi accesi una sigaretta e iniziai a sacramentare contro il sistema. Quale sistema non lo so, ma tanto per avercela con qualcuno. Per non impuzzolentire la macchina aprii la portiera e scesi, pronta nel caso di verde a scattare veloce e riprendere il mio viaggio. Ero così nervosa che non mi stavo neanche più godendo il panorama. Basta non ne potevo più, il tempo passava ed io ero sempre lì con questo semaforo che vegliava su di me e mi diceva, col suo rosso, di non muovermi. Feci una corsa e lo raggiunsi. Controllai dietro per scorgere se era tutto a posto, e lo presi a pugni per vedere se per caso non si fosse inceppato, che ne so magari un contatto. Niente, il nulla … lui se ne stava imperterrito sul suo rosso. Stavo per tirare fuori una sequela d’insulti quando, sentii dei fruscii arrivare alla mia destra. Mi voltai di scatto, impaurita e lì in mezzo ad un cespuglio che mi osservava con tranquillità, c’era un cervo. Rimasi senza fiato, o meglio non respirai più per paura che scappasse per il troppo rumore. Era bellissimo, i suoi occhioni mi guardavano, domandandosi forse cosa stessi facendo li. Me lo stavo domandando anch’io, veramente. Accidenti a me avevo la macchina fotografica nell’auto e se mi fossi di certo mossa per raggiungerla, il cervo sarebbe scappato. Restai a osservarlo mentre brucava, non so per quanto tempo. Oramai mi ero anche dimenticata del semaforo rosso. Ero estasiata dalla sua imponenza. Come era arrivato, a un certo punto qualcosa lo spaventò e con un bellissimo salto sparì. Mi girai di scatto, svegliata all’improvviso da un sogno, e mi accorsi che finalmente il semaforo era diventato verde. Corsi verso la macchina, l’accesi velocemente e passando di fianco al semaforo lo ringraziai per il bellissimo regalo. Stavo per imboccare la curva che mi avrebbe portato al restringimento di carreggiata, quando sentii qualcosa. Non so dire se sia stata la mia immaginazione, il vento, il rumore del bosco, ma distintamente io percepii: “Prego!”

martedì 7 aprile 2009

DUE SULLA STRADA


“Ciao Pina, cerca di non ciapà troppo fregg oggi!” Come ogni giorno la Sonia si divertiva a prendere in giro il mio modo di attirare la clientela. Nonostante si impegnasse a parlare Italiano qualche parola di milanese gli scappava ancora nella conversazione, l’abitudine era dura a morire per due vecchie milanesi come noi. Ho ormai superato da un po’ la soglia dei cinquant’anni e sono ancora sulla strada. Non posso certo fare concorrenza alle giovani leve dell’est, belle bionde con fisici scolpiti, ma ormai ho la mia clientela affezionata. Sì a guardarmi sono un po’ sovrappeso. Il seno, il mio punto forte in gioventù grosso e sodo, ormai è cadente. E’ proprio con quello che attiravo e attiro ancora i miei clienti. Ho un “reggipoppe” scollato che me le alza e quando vedo qualche macchina che si avvicina apro la giacca e lo mostro. Non posso certo mettermi alla mia età a far concorrenza alle ragazze in reggicalze minigonna o vestitini attillati, ho anche io il senso dell’estetica! Do un ultimo tiro alla sigaretta, trattengo il fumo più che posso e lo sbuffo fuori ridendo. “Non possiamo di certo permetterci di ammalarci alla nostra giuin età!” mi sussurro. Nonostante sia da anni che conosca la Sonia non mi sono mai permessa di chiederle come e perché abbia iniziato questo lavoro. Io e lei non ci siamo mai fatte concorrenza perché siamo due donne completamente diverse; io un po’ rotondetta, capello corto biondo, pantaloni ma con due “tettazze” sempre in vista, lei alta capello lungo moro gonna corta sempre seduta a gambe aperte, naturalmente senza mutande sotto! Ognuna di noi ha due clientele ormai affezionate che mai e poi mai si azzarderebbero a scambiarci. ”Incö el fa tropp fregg…me sa che non si vede nessuno!” Povera Sonia sempre a lamentarsi del freddo e dei pochi clienti. Non faccio neanche in tempo a pronunciare una risposta che vedo arrivare come ogni mattina una macchina bianca. ”L’è il Gianni!” Si alza di scatto è con il miglior sorriso di cui dispone lo aspetta già pronta a salire. Resto sola nei miei pensieri, per passare il tempo mi accendo un’altra sigaretta. Ultimamente non è che vada molto bene il lavoro, troppa concorrenza giovanile, troppe ragazze agli angoli delle strade. Quando ho iniziato ero anche io giovane, carina e provocante. La scuola non mi è mai piaciuta e dopo essere stata bocciata ancora una volta mio padre, come sempre ubriaco, mi aveva picchiato e mandato all’ospedale con una frattura ad un braccio. Mi ero sempre ripromessa che una volta diventata maggiorenne me ne sarei scappata di casa e sarei riuscita a badare a me stessa. E così ho fatto. Per una ragazza che non ha finito gli studi trovare lavoro non è facile, ma ero disposta a far tutto non avevo certo grandi pretese. Bussavo ovunque, ma la risposta era sempre la stessa, no! Una delle ultime mie richieste fu in un bar per un lavoro da cameriera ma anche qui la risposta fu negativa perché cercavano personale con esperienza. Me ne uscii afflitta. Ho sempre pensato che se uno ha voglia di lavorare il lavoro prima o poi arriva. In un certo senso non mi sbagliavo. Girato l’angolo del bar mi sentii chiamare. Chi poteva sapere il mio nome? Mi girai e notai un signore che era seduto al bancone del bar che avevo appena lasciato. “Pina cara, ho sentito che stai cercando un lavoro. Una bella ragazza come te non dovrebbe aver difficoltà sai…” gli sorridevano gli occhi, mentre mi parlava. “Io gestisco un gruppo di ragazze… tutte belle come te… per fare compagnia a dei miei clienti…è un lavoro ben retribuito…ti può interessare?” Ogni sua frase era stata scandita con molta cura. Sapevo benissimo di cosa mi stava parlando. Non ci pensai due volte. Per cento porte che mi erano chiuse alle spalle, finalmente una si era aperta. Carina ero carina e se il mio fisico poteva aiutarmi a tirare fine mese…non ci vedevo niente di male! Feci da compagnia particolare ai clienti per qualche anno…poi decisi, avendo messo qualche soldino da parte, di cambiare vita. Ma da un pero non nasce un melo e così…mi resi conto che l’unico lavoro che sapevo fare era quello della prostituta e decisi di mettermi in strada anche perché ormai non avevo più l’età per fare da giovane accompagnatrice. Quanti inverni erano passati da allora e nonostante non fossi più carina ed in forma come un tempo il lavoro non mi è mai mancato. I clienti dopo un po’sono sempre gli stessi: signori di una certa età che preferiscono l’esperienza alla bellezza! E di esperienza io ne avevo tanta…
“Meno male che il Gianni l’ha pissà il riscaldamento...”. Ma quanto è stata via? Guardo l’orologio convinta che sia passata un’eternità e con mio stupore mi accorgo che sono passati solo quindici minuti. La cerco con gli occhi, le sorrido. “Sei stata più veloce del solito Sonia, potevi goderti il caldo ancora un po’…tanto la giornata sarà molto lunga!”

lunedì 6 aprile 2009

SUL PRECIPIZIO


Sul precipizio...mi avvicino, guardo avanti a me il nulla, il vuoto...mi volto indietro...tutto quello che conosco. Vado o non vado? Chiudo gli occhi e sento il vento che mi circonda. Faccio un passo in avanti e.................

Inizio a cadere...mi metto a braccia aperte e do la schiena al vuoto. Sento sotto di me l'aria che mi culla...apro gli occhi e osservo le nuvole bianche che cercano di attutire la mia caduta. Quando ci passo dentro sento freddo ma la corsa rallenta. Vedo sopra di me, gli uccelli che mi guardano stupiti...uno, il più coraggioso si avvicina e fa un pezzo di "strada" con me.

Lo guardo e gli dico "ma che bello è volare"...lui mi fa l'occhiolino e torna al suo stormo. Continuo a cadere ma è così bello... i muscoli delle gambe e delle braccia sembrano massaggiati da abili mani da quanto si muovono. Giro la testa per vedere quanto manca alla fine. Sotto di me tutto così piccolo, io padrona dello spazio, del tempo, del mondo...sembra che la mia caduta non finisca mai...mi rendo conto che sto galleggiando...Mi rilasso ancora di più...mi lascio cullare dal vento, ascolto tutto quello che mi circonda e ascolto il mio cuore.

Batte piano, tranquillo contento. Ascolto la mente. Mi giro, guardo in alto e vedo il precipizio...inizio a nuotare per risalire da dove sono patita. La salita è più faticosa. Mentre salgo si riavvicina l'uccello di prima e fa nuovamente l'occhiolino. Arrivo in alto tutta sudata e resto ad osservare la terra da dove mi sono buttata. Riguardo davanti a me ed adesso vedo quello che conosco, abbasso la testa e vedo il nulla ma stavolta anche questo lo conosco.

Chiudo gli occhi e faccio un passo. I miei piedi toccano il terreno, soffice. Resto quanche minuto ferma e ascolto il mio cuore, che batte ancora piano, rillasato e la mia mente. E' lei che parla " Non è poi tanto male non avere il controllo e lasciarsi andare al vuoto, al nuovo...non trovi!" Apro gli occhi e lentamente prendo la strada per scendere a valle.

NELLA VASCA


Finalmente a casa! Oggi sono proprio stanca, ho girato in lungo ed in largo Milano come una matta senza riuscire a fare pressoché niente. Non capisco perché gli scioperi dei mezzi pubblici debbano essere sempre fatti di venerdì, in città vige già il caos perché la gente è pronta mentalmente al week end ed è magari andata al lavoro con la macchina carica per partire.

Adesso, per rilassarmi mi preparo un bel bagno caldo. Apro l’acqua e regolo la temperatura. Non mi piace troppo caldo. Metto il bagnoschiuma…ops me ne è scappato troppo…e vado a svestirmi. Magari uno pensa che la parola svestirmi sia: prendo tutto ciò che indosso, lo tolgo, lo piego e la metto via…questo non vale però per la sottoscritta. Io prendo i vestiti che porto, li tolgo, camicia e golf insieme così faccio prima e li lascio appallottolati.

I jeans hanno un destino più crudele, restano addirittura sul tappeto in camera insieme alle calze e alle mutande. Odio quelli che mi dicono “ci metti lo stesso tempo a mettere a posto le cose”, ma stiamo scherzando vuoi mettere che risparmio mollare tutto così come si trova? Sento l’acqua che scorre nella vasca, ma il rumore è un po’ ovattato. Mi affaccio in bagno e vedo che la vasca straborda di schiuma. Mi sembrava che ne fosse caduto troppo cavolo! Prendo il doccino e cerco di abbassare la schiuma con lo schizzo, ma dove accidenti ho la testa, si vede che sono stanca oggi non ragiono neanche…la schiuma nel giro di poco raddoppia e mi ricorda il film Blob, quando “la cosa” esce dal cinema facendo fuggire gli spettatori…la schiuma esce dalla vasca ed avanza per il bagno…Danno per danno la prendo con le mani, l’appoggio sul palmo e la soffio via…meno male che sono sola in casa perché se mi vedesse qualcuno ora mi prenderebbe sicuramente per matta.

Finalmente riesco a riprendere il controllo di tutto, l’acqua è arrivata all’altezza giusta e la schiuma non mi aggredisce più. Prendo la mia foca della Chicco e mi infilo nella vasca. Si…la foca della Chicco, quella che galleggia. Beh cosa c’è di strano, adoro fare il bagno con animali che galleggiano e la foca si diverte da matti con la schiuma che sembra ghiaccio, dentro la vasca. Oddio è la foca o sono io che mi diverto di più…questo non l’ho ancora capito.

Dopo dieci minuti la schiuma ormai sta svanendo e la foca sembra ora in un mare di iceberg che si stanno sciogliendo per l’effetto serra. Adesso è il mio momento. Metto la testa sotto l’acqua e resto ad ascoltare i rumori della casa. Il mio sotto inquilino non ha ancora messo l’olio alla porta della camera da letto, perché il cigolio amplificato dall’acqua mi fa sobbalzare. Sento il mio respiro, i battiti del cuore… mi piace molto, mi sento viva. Tutto sembra più intimo nell’acqua, tutti i rumori sono forti… “gruuup…gruuup”…aiuto chi c’è nella vasca! Il mio stomaco si lamenta, probabilmente inizia ad accusare i morsi della fame.

Non so quanto resto di solito con la testa sotto, forse fin tanto che non mi prende freddo perché l’acqua si sta raffreddando. Ma oggi non ho assolutamente voglia di riemergere e così col piede destro apro il rubinetto dell’acqua calda per riscaldarmi un po’. Quando sento che la temperatura corporea si è ripresa, sempre col piede…”bruciaaaa”…ho appoggiato le dita sul rubinetto bollente…chiudo il tutto. Resto ancora un po’ sotto. La foca offesa perché nessuno la guarda si è fermata in un angolo della vasca e mi dà le spalle. Sento un telefono che squilla…uno, due, tre…dieci squilli…non c’è nessuno, cosa insistono! E’ ora di lavarsi. Verso il sapone liquido sulla spugna e inizio a strizzarla forte per far uscire la schiuma. “Cich”, mi piace sentire il rumore della spugna spremuta, “cich” e così altri minuti preziosi se ne vanno per l’ennesimo gioco nella vasca.

Finalmente riesco a lavarmi senza altre interruzioni. I capelli sono sempre gli ultimi perché prima di risciacquarmi con la doccia infilo per l’ultima volta la testa sott’acqua e ci resto altri minuti. Chiudo gli occhi per assaporare gli ultimi minuti di tranquillità e…”bang” si apre la porta del bagno con tale violenza che sbatte sul bordo della vasca. Salto in aria e rivolgo lo sguardo alla porta. Mio marito mi sorride, con un sorriso che si rivolge di solito al gatto che ha combinato qualche marachella. “Ti ho chiamato prima per dirti che stavo arrivando, meno male che hai tolto le chiavi dalla toppa…”.

Gli rivolgo di rimando il sorriso più birichino che posseggo e mi butto sotto ancora per l’ultima volta…giuro. “Allora eri tu prima, pensavo fosse il telefono del nostro vicino”, ma non mi accorgo che col fatto che non sento le mie parole, sto urlando a squarciagola!

AL PIANO


Mi siedo al pianoforte. Sono anni che non lo suono più, non sarei neanche in grado di leggere le note su uno spartito ma la musica a orecchio è sempre stata il mio forte. Sono un po’ triste ed ho voglia di suonare quella canzone che mi piace tanto. Apro il coperchio e guardo interrogativa i tasti. Appoggio le mani e come per incanto trovo subito l’accordo giusto. Il ritornello mi viene ma, quando mi addentro nella sinfonia della canzone, non riesco a trovare le note. Sento dei passi alle mie spalle leggeri. Mi giro e ti vedo, hai ancora i capelli arruffati dal letto, ma sei bellissimo comunque. Mi fai segno di scivolare più avanti sullo sgabello e ti siedi dietro di me. Appoggi le mani sulla tastiera e le tue braccia stringono le mie spalle. Inizi a suonare il pezzo con molta delicatezza. Io chiudo gli occhi per sentire meglio le note e appoggio la testa indietro sulla tua spalla destra. Continui a suonare baciandomi il collo, non hai certo bisogno di guardare, le tue mani volano sui tasti. Sento gli occhi riempirsi di lacrime ma, non voglio farti vedere che piango e con tutta me stessa respingo le lacrime da dove sono venute. In quel momento tu smetti di suonare, come se avessi avvertito il mio stato d’animo. Mi giro il viso verso di te e mi guardi dritto negli occhi. Le tue dita scivolano sulle mie palpebre le accarezzano, scendono poi verso la mia bocca e il tuo pollice le accarezza passando tutto il contorno. Lo bacio ma non riesco neanche a finire il bacio al tuo dito che tu con passione mi attiri a te e dove un attimo prima c’era il tuo dito, trovo la tua bocca aperta a reclamare un bacio. La tua lingua scivola dentro la mia bocca e trova la mia. Senza staccarti da me mi alzi e mi porti verso la camera. Mi adagi piano sul letto e con la stessa delicatezza ti stendi sopra di me. Inizi a baciarmi il collo, scendi verso le spalle che adesso sono nude perché una tua mano ha slacciato la maglia che avevo. Ti fermi e osservi il mio seno che si alza a ogni respiro che si è fatto più veloce, intenso per il piacere. Me lo baci non dimenticando neanche un centimetro, mentre io ansimo di piacere e le mie mani giocano tra i tuoi capelli. Il mio seno è duro e voglioso e i miei capezzoli lo dimostrano in tutta la loro rigidità. Arrivi con la punta della lingua fino all’ombelico, ci giochi infilandola dentro … poi scendi ed io perdo il controllo di me stessa. Quando ormai il mio piacere è a livelli che non riesco più a controllare mi penetri con tutta la forza e la passione di cui sei capace. I nostri corpi si muovono come in una danza, le mani si cercano, si stringono, si aggrappano. Le mie gambe ti stringono a me, per provare il massimo del piacere. Le bocche si cercano e nel momento del piacere si trovano, in un bacio profondo. Non so quanto restiamo abbracciati a coccolarci. Mi domandi il motivo della mia malinconia ma io non trovo una spiegazione logica e ti sorrido ricordandoti che quella canzone nonostante mi piaccia un sacco, mi rattrista. Mi stacco da te e cerco la mia maglia. Con lo sguardo la vedo buttata ai piedi del letto e allora a pancia sotto cerco di allungarmi e recuperarla. Tu mi blocchi, mi tiri indietro per la vita, mi metti sopra le tue gambe a mo’ di bambina che deve essere sculacciata e inizi a suonare sulla mia schiena. Mi fai il solletico e mi viene da ridere ma tu continui a muovere le tue mani sulla mia schiena come se fossi davanti ad un pianoforte. Quando ormai ho le lacrime che mi scendono dagli occhi per il troppo solletico, ti fermi ti allunghi verso di me e mi baci. Mi guardi negli occhi e mi dici “ho trovato il modo di farti ridere mentre suono, amore mio!”

domenica 5 aprile 2009

UNA MATTINA COME TANTE ALTRE



Come ogni mattina esco da casa, per andare a prendere il treno. Sono le 6.30. E’ ancora buio intorno a me. Mi accendo una sigaretta, faccio un tiro e tengo il fumo in bocca per un po’. Lo lascio uscire con violenza per confonderlo con la nebbia che mi avvolge. Mi guardo in giro. Nel parco vicino casa mia, s’intravedono figure oscure accompagnate da cani già pieni di voglia di vivere nonostante l’ora. Mi dirigo a piedi verso la stazione di Rogoredo. Gli autisti della 95, che fa capolinea lì vicino, sono chiusi nei loro mezzi al riparo dalla frescura mattutina. Gli passo vicino, li guardo e li saluto con la testa. Li vedo tutte le mattine, ormai è quasi un rito. Entro in stazione e mi dirigo subito al binario 3 scendendo nel sottopasso. C’è un vecchio sdraiato per terra che riposa, infagottato nel suo giaccone. Gli cammino vicino e mi fermo qualche secondo per controllare che stia respirando. Non si sa mai, col freddo che c’è di notte. Sto per avvicinarmi di più, quando muove di scatto un piede. Bene, sta sognando. Speriamo che almeno nel sogno se la stia passando meglio. Salgo le scale e mi ritrovo davanti ai soliti volti familiari. Visi stanchi di pendolari. Il treno stranamente è in orario, meglio perché sono un filo infreddolita. Salgo e mi siedo nel primo posto libero che trovo, vicino al finestrino per godermi il panorama delle risaie avvolte dalla nebbia mattutina. Il treno mi mette sempre un po’ di sonno, sarà il suo dondolio e il rumore costante che ricorda quello di un metronomo, che non faccio in tempo ad appoggiare la testa sullo schienale che mi appisolo. Mi sveglio di soprassalto tirata per un braccio. E’ uno di quei volti familiari con cui però non ho mai familiarizzato. Mi avvisa: la prossima stazione è la mia. La mia, la nostra. Già la nostra, perché anche lei viene con me. Facciamo sempre un pezzo di strada insieme usciti dalla stazione, poi le strade si separano. Ognuno con i propri pensieri, ognuno avvolto nel suo torpore.



(racconto presente nell' e-book fatto per i dieci anni di Italians di Severnigni)

CON SE STESSI


Fuori stava nevicando. Mi ero avvicinata alla finestra per vedere ed ero stata costretta a passare una mano sul vetro per togliere l’appannamento che si era formato. Il vetro era freddo e bagnato. In casa il camino scoppiettava allegro, la legna che avevo messo nel pomeriggio bruciava bene e riempiva la stanza di un odore di resina. Guardai il cielo. I fiocchi di neve sembravano galleggiare trasportati dal vento…alcuni sembrava non avessero proprio voglia di arrivare a terra e mi giravano davanti agli occhi. Ci sarà stato già più di mezzo metro sul terreno. Il paesaggio sembrava immacolato, silenzioso, sperso nel tempo, i rumori ovattati. Chissà se sarebbero riusciti a salire alla baita i miei amici il giorno successivo. Girai lo sguardo verso il camino. Che bello che era, tutto in legno con delle panche che ci giravano intorno. Sopra erano appesi dei campanacci, dei corni di cervo e dei rami con vari nodi che avevo trovato l’estate scorsa, mentre andavo a funghi. Sulle panche c’erano già i sacchi a pelo che avevo preparato per gli amici e che avevo messo davanti al fuoco in modo da togliere l’umidità che si era formata dentro in questi mesi di casa chiusa. Avevo anticipato tutti partendo il giorno prima perché dovevo sistemare la baita e portare i primi generi di conforto per il week-end di capodanno. Era iniziato a nevicare, quando ero ancora in paese poi, mentre salivo con la jeep verso la vetta l’intensità era aumentata col passare dei minuti. Arrivata all’ultima curva prima della baita mi ero subito resa conto che entrare in casa sarebbe stato di certo un po’ faticoso. La neve aveva già superato i venti cm e sicuramente avrei dovuto spalare davanti alla porta di legno della baita. Meno male che mio padre sulla jeep aveva sempre il kit di pronto intervento: pale e ascia…male che vada avrei dato un’asciata alla porta di legno e sarei entrata…sì e mio padre me ne avrebbe data una in testa a me dopo! Parcheggiai la jeep nell’ingresso posteriore dove c’era una piccola tettoia che la riparava e cambiatami le scarpe da tennis, che per guidare sono comode anche se avevo i piedi gelati, mi infilai le pedule. Aprii il portellone del bagagliaio che, aprendosi in altezza andò ad urtare contro un pino carico di neve che mi cadde addosso. Mi misi a ridere…ero intenzionata a fare un bel pupazzo di neve dopo, ma non pensavo di certo di farlo con la mia persona! Frugai per cercare una delle pale che ricordavo aver visto a mio padre. Eccola! Ma dove l’aveva presa all’Ikea, era da montare. Mio padre e la mania delle cose che occupano poco spazio! Ogni passo che facevo lasciavo dietro di me un’orma. Beh a pensarci bene io che ho sempre paura a stare da sola poteva essere la mia “salvezza”, la neve. Avrei visto di certo le orme di qualcuno se si fosse avvicinato alla casa. Decisi che sarei tornata alla jeep dopo facendo il percorso inverso, come i gamberi. Spalai il primo mezzo metro davanti alla porta d’ingresso e iniziai così a preparare la base con la neve che avevo accumulato per l’eventuale pupazzo di benvenuto davanti a casa. Finalmente dentro. Ero congelata anche perché i lavori manuali non riesco a farli con i guanti ed allora le mani erano diventate rosse dal freddo. Accesi la luce, il gas aprii l’acqua e decisi che prima di fare una doccia per scaldarmi tanto valeva finire il pupazzo lasciato a metà. Feci allora una palla di neve e come si vede fare da tutti i professionisti…iniziai a farla rotolare per ingrandirla. Peccato che dopo non riuscissi più ad alzarla! Ma che capoccione gli avevo fatto era più grande del corpo… ah ah ah. Lo smussai un poco e riuscii a sollevarlo. Lo appoggiai alla base con tale violenza che a momenti mi si ruppe tutto. Riuscii a ricucire i pezzi. Mi allontanai per guardare le proporzioni, era perfetto. Mancava il tocco finale. La vestizione. Con una pigna gli feci il naso. Dei rami corti di pino li usai per la bocca bella allegra in segno di benvenuto. Trovai per terra dei legnetti che usai per fare le dita delle mani…beh sembrava fossero un po’ rachitiche, ma non stiamo a guardare il particolare. Mancava ancora qualcosa. Sembrava spento, senza vita. Certo gli occhi. Gli feci due buchi con le dita e gli infilai dentro due sassi che avevo spostato con la pala, mentre pulivo l’ingresso. Ecco adesso era perfetto, dovevo solo trovargli un nome appropriato, beh appropriato un nome che mi piacesse, diciamo. Poldo era perfetto. A guardarlo meglio, infatti, assomigliava al personaggio amico di Braccio di Ferro che mangiava gli hamburger…aveva sicuramente la stessa pancia gonfia! Finalmente potevo andare a farmi una bella doccia calda, anche perché se stavo fuori ancora pochi minuti senza guanti potevo dare le mie di mani a Poldo perché si sarebbero staccate da me. Mi tolsi gli scarponcini all’ingresso e li misi vicino alla stufetta e mi infilai gli zoccoli di pelo che mi piacevano tanto. Erano gli unici zoccoli che mettevo solo per il fatto che mi facevano ridere e pensare alle zampe di un fauno, perchè non sono capace di camminare con gli zoccoli, arriccio il piede per paura di perderli ad ogni passo e così alla fine della giornata mi fa male tutta la gamba che è stata in tensione. Andai al piano di sopra dove c’era il bagno facendo un rumore a salire le scale con gli zoccoli insopportabile. Mi fermai a guardare di sotto. Che bella che era questa baita. Tutta in legno intarsiato, foto di animali ovunque accogliente calda, calda di un calore umano, perché arredata di buon gusto da mia mamma che amava la montagna e quindi era piena di ricordi montanari. Un vecchio scarpone trovato in una passeggiata sul monte Scorluzzo in mezzo a trincee ottimamente conservate della Prima Guerra Mondiale, la testa del rastrello che aveva imboscato mia mamma dopo averlo trovato vicino ad una fattoria, perché le piaceva. Ricordo ancora la faccia di mio padre che la guardò come se avesse rubato un lingotto d’oro. Sulle mensole vicino al camino c’era la collezione di boccali di birra presi nei vari viaggi in Germania e Austria, quelli con il tappo di peltro. Da piccola ne avevo rotto una accidentalmente, ero intenzionata a ricomprarne uno simile ma quando mi dissero cosa costava a momenti svenivo. Andai allora da mio padre che mi diede i soldi e rimisi il boccale al suo posto senza dire niente a mia madre. La doccia mi fece bene, avevo ritrovato le energie. Ritornai al piano di sotto, facendo un tale baccano che decisi di camminare a piedi nudi con due paia di calzettoni. Guardai fuori, stava imbrunendo e non smetteva di nevicare. Avevo anche un leggero appetito e mi preparai un panino con speck e formaggio. Svuotai i sacchetti della spesa del week-end e sistemai le vettovaglie negli scaffali: piatti, bicchieri, tovaglioli, posate, tutto era di plastica così nessuno di noi avrebbe lavato e sistemato dopo aver fatto baldoria. Un rumore in casa mi fece andare il cuore in gola. Cosa poteva essere stato! Ero indecisa sul da farsi, andare di là a controllare o restare immobile in cucina senza respirare. Andai a controllare, anche perché se veramente ci fosse stato qualcuno sapeva che in casa c’era gente…anzi io. Era un ciocco di legno che era caduto dal camino…tirai un sospiro di sollievo! Ma chi me lo aveva fatto fare di venire su da sola in baita a sistemare, io che non sopportavo la solitudine e paurosa come sono. Mi sedetti vicino al camino e sistemai la legna. C’era troppo silenzio per i miei gusti. Accesi della musica a volume basso per creare un piacevole sottofondo e per rilassarmi un po’. Rimasi seduta a guardare il fuoco. Sembrava che le fiamme volessero trovare una propria strada per liberarsi, l’una dall’altra, giocavano ad allontanarsi e subito dopo si riunivano in una grande lingua. I colori cambiavano dal rosso, blu, bianco, arancio, a secondo della prospettiva da cui lo osservavo. Mi assopii. Quando mi svegliai mi resi conto che fuori ormai era buio, e mi avvicinai alla finestra per controllare che tempo c’era. La mia prima giornata da sola stava per terminare. Silenzio e neve ovunque guardassi. Poldo ormai era diventato il doppio di come lo avevo lasciato dalla neve che gli era caduta su. Se fosse continuato a nevicare tutta la notte, l’indomani avrei trovato un gigante al suo posto. Mi asciugai la mano che si era bagnata nel pulire il vetro e rimasi ad osservare il paesaggio che mi si parava davanti. I rami dei pini erano piegati per il troppo carico di neve che dovevano sopportare. Le mie impronte fatte nel pomeriggio non si vedevano quasi più, ormai erano state riempite dalla nuova neve caduta. Le luci della seggiovia che arrivava a qualche centinaio di metri dalla baita creavano delle ombre strane intorno…o era la mia mente che le creava strane per la mia solita paura! Chiusi le imposte per sentirmi più sicura e mi diressi verso la cucina, decisa a prepararmi una camomilla. Forse era il caso di correggerla con qualcosa di forte così sarei riuscita a riposare meglio ed a non pensare, mi dissi! La legna del camino ormai era ridotta a brace, ancora poco e si sarebbe spento definitivamente ed io sarei potuta andare a letto dentro al mio sacco a pelo mummia, quello che usava mio padre nel periodo del militare nei campi invernali ad Asiago. Ti infilavi dentro chiudevi la lampo tiravi sul il cappuccio ed eri intrappolato per sempre…se dovevi girarti nel letto, lo dovevi fare insieme al sacco facendo un pel salto! Mi spogliai alla velocità della luce, perché la stanza non era così riscaldata come il piano sotto che col camino aveva raggiunto una notevole temperatura, mi infilai un bel pigiama pesante …molto sexy… pensai e mi infilai nel sacco. Rimasi in ascolto del silenzio. Se uno è paranoico come me, i rumori spaventano ma il troppo silenzio terrorizza! Ecco un rumore, uno scricchiolio, un ticchettio…la casa è di legno, saranno di certo i rumori di assestamento. Calmati, pensa a quanto è bello essere qui fuori dalla confusione della città. I tuoi amici sono ancora al lavoro e tu sei già in vacanza. Fuori nevica, tu adori la neve. Poldo sta sorvegliando l’ingresso e sicuramente farà funzione di spaventapasseri o spaventa persone…Chi vuoi che si muova per i monti con una tormenta di neve. Sì, brava tutte cose logiche ma la logica non calma la mia mente. Accendo la luce per vedere se ho chiuso la porta della camera, ma non contenta decido di chiuderla anche a chiave. No, devo riaprire la mummia! Va beh mi alzo e saltello fino a li…tanto sono quattro passi. I miei salti fanno tremare il pavimento, se qualcuno mi vedesse ora mi prenderebbe sicuramente per matta. In quattro balzi “delicati” arrivo alla porta, abbasso velocemente la cerniera, tiro fuori la mano e chiudo la serratura. Quattro balzi e sono di nuovo sul letto. Sono tutta sudata dalla fatica così apro un po’ la chiusura del sacco. Devo cercare di rilassarmi, più che altro devo cercare di far in modo che le mie paure non prendano il sopravvento. Mi sdraio e respiro profondamente penso alla neve che soffice cade fuori e la vedo sempre più lontana e la sento sempre meno fredda e…finalmente mi addormento. La mattina mi sveglio presto e con piacere mi accorgo che ho riposato. Apro le imposte e noto che ha smesso di nevicare ma sicuramente lo ha fatto da poco perché tutto è coperto di bianco. Il povero Poldo è irriconoscibile…altro che dare il benvenuto, così conciato li fa scappare tutti i miei ospiti. Mi infilo una tuta di pile e scendo a farmi un caffè. Decido di riaccendere il fuoco prima di uscire così la temperatura si rialza e stasera quando arriveranno i miei amici non avranno freddo. Mi affaccio alla porta e sorrido al pupazzo. Povero, che brutta cera che hai. Il naso è crollato a terra e le dita delle mani sembrano dei salsicciotti da quanta neve hanno su. Mi infilo le pedule ed esco. Guardo il cielo è azzurro ed il sole è ancora dietro la montagna. Ormai non dovrebbe più nevicare, così riprendo la pala e pulisco di nuovo l’entrata e già che ci sono faccio anche tutto il vialetto d’ingresso, così almeno è più semplice camminare. Il sole sbuca da dietro il monte ed illumina la casa. Il paesaggio è splendido, la neve brilla toccata dai raggi solari. Mi bruciano gli occhi da quanto bianco c’è intorno. Corro dentro a prendere la macchina fotografica e inizio a scattare tutto ciò che mi piace e mi crea emozione: il pino pieno di neve, Poldo in condizioni disastrose che sembra un viandante in cerca di un posto caldo dove passare la notte, le nuvole che disegnano figure varie in cielo e dei corvi che zampettano sulla neve in cerca di qualcosa da mangiare. Decido di farmi anche un autoscatto. Posiziono la macchina sul muretto, pigio e corro in mezzo alla neve ridendo da sola. Mi sono sempre divertiti gli autoscatti, penso siano le foto più belle e sincere. La mattina passa veloce perché tra rifare il trucco al pupazzo, spalare e fotografare il tempo vola. Mancano poche ore e la quiete della montagna sarà squarciata dall’arrivo degli amici. Mamma che fame che mi è venuta! Chissà perché la montagna a me fa sempre venire fame. Devo restare leggera poi stasera pasticceremo e berremo di certo, così decido che un bel piatto di bresaola fa al caso mio. Poi non so come mai finiscono sopra anche un po’ di rucola, grana a scaglie e dei funghetti sott’olio. Ma sì, è più buono così. E adesso cosa faccio fino a stasera, ho già messo in ordine, pulito, acceso il camino e preparato il giaciglio per tutti. In lontananza si sente il vociare degli sciatori. E’ da una decina di anni che non metto su un paio di sci, mi piacerebbe riprendere ma considerato che l’ultima volta ho fatto un bel trauma cranico perché sono una incosciente….forse è meglio darsi allo sci di fondo o ad una bella ciaspolata. A proposito di ciaspole, le ho dietro in macchina, adesso le metto e vado a fare un giretto fino alle piste da sci. Mi cambio al volo e mi infilo l’attrezzatura. Mi porto dietro anche uno zaino con acqua, cioccolato…non si sa mai un calo di zuccheri e la mia immancabile macchina fotografica. Racchette nelle mani, zaino in spalla e op op …parto in salita. Cento metri e sono già con la lingua che arriva ai piedi. Meno male che vado sempre in palestra a tenermi in allenamento!!! Proseguo più lentamente così mi godo il paesaggio in mezzo al bosco. I cespugli che d’estate sono piene di mirtilli non sono neanche distinguibili dalla neve che hanno sopra. Il sentiero che di solito faccio quasi ad occhi chiusi, non lo riconosco più…ho perso tutti i miei punti di riferimento con tutto questo bianco. Ci sono un sacco di orme sulla neve da quelle di qualche volatile a quelle di animale che non conosco: cervi, daini, stambecchi…per me hanno tutti gli stessi zoccoli. Il sole crea una bellissima luce filtrando nel bosco e così mi fermo a fotografare. E già che ci sono mi mangio un pezzetto di cioccolato per riprendermi dalla fatica. Arrivo sul pianoro dove si vedono le piste e visto che sono in pieno sole e la neve è battuta mi siedo per terra e mi metto a prendere un po’ di sole. Mi sistemo lo zaino dietro la testa e mi sdraio così sono più comoda e…mi assopisco. Che freddo che c’è! Mi sveglia il freddo, il sole sta sparendo dietro la montagna e la luce tutto intorno è cambiata. Prima di rimettermi in marcia per il ritorno scatto ancora un paio di foto…di cui una, un altro autoscatto per testimoniare la mia scampagnata. La discesa è più veloce e leggera. In mezzora sono all’imbocco del vialetto di casa. Ho giusto il tempo di farmi una doccia calda e rimettere su qualche ciocco di legno prima dell’arrivo dei festanti. Mollo tutto all’entrata e mi sbatto sotto la doccia. Ah che bella calda…mi lascio cadere il getto dietro le spalle e sulla testa. Non so quanto tempo resto sotto…ecco non avrò mica fatto fuori tutta l’acqua della caldaia…cavolo! Mi asciugo velocemente perché mi rendo conto che è già tardi e tra poco non sarò più sola. Se devo essere onesta un po’ mi dispiace avevo trovato la mia anima solitaria in queste poche ore, da un lato sono contenta perché stanotte avrò compagnia. Mi vesto un po’ più elegante di come ero precedentemente, in fin dei conti sono sempre la padrona di casa, devo avere un bell’aspetto. Guardo fuori e mi rendo conto che ormai sta diventando buio ma è così sereno e la neve così bianca che sembra ancora più chiaro di quanto sia, il cielo. Sento in lontananza dei rumori di macchina…si stanno avvicinando, eccoli sono a pochi metri li vedo sbucare dall’ultima curva, i fari mi illuminano. Gli corro incontro, mi vedono e iniziano a suonare il clacson in segno di saluto. Ecco è finita la quiete! Li faccio entrare con le jeep davanti alla baita per scaricare le provviste. Scendono tutti ed iniziamo a salutarci ad abbracciarci come se non ci vedessimo chissà da quanto tempo. Qualcuno commenta sulla bruttezza di Poldo ed io l’invito a tornare a casa sua! Mi giro e vedo le provviste per il week-end. Ma quanta roba hanno portato sembra che dobbiamo restare per un mese. E quanto alcool…meno male che siamo isolati così nessuno potrà vedere le condizioni in cui ci ridurremo. Sento da fuori i commenti sulla bellezza della baita e ciò mi fa molto piacere. Tutti ormai sono dentro ma io resto ancora qualche secondo fuori ad osservare la quiete che fino a poco fa mi ha tenuto compagnia. Sorrido ancora una volta al povero Poldo bistrattato da tutti e mi chiudo la porta alle spalle. Entro in casa e mi dirigo verso gli amici che mi aspettano già con un bicchiere di vino rosso in mano. Ho la netta sensazione che sarà un lungo week-end…non di paura certo …ma di grande baldoria! Sorrido a tutti e mi butto nella mischia!

L'ALTALENA


Esco da casa, non sopporto quest’atmosfera pesante che si respira. Non ho una meta precisa, ma ho voglia di distrarmi. Camminare mi ha sempre fatto bene. Lascio che siano i miei piedi e gli occhi a condurmi dove più li spiri. Faccio qualche passo e mi ritrovo subito in una via silenziosa, mi guardo intorno, il vuoto. Lo stesso vuoto che mi sento dentro. Non conosco questa strada e mi va bene così, anche le cose conosciute alcune volte ti deludono, quindi dal nuovo non mi aspetto niente di più di quello che sarà in grado di darmi.

Il marciapiede è tutto rotto e sporco. La strada non sembra neanche asfaltata, c’è della sabbia mista a sassolini, è piena di buche ricoperte d’acqua per la pioggia dei giorni precedenti. Le evito, anche se la voglia sarebbe di passarci dentro con le scarpe. Proseguo dritta davanti a me. Mi sembra di intravedere un parco. Ma dove è sparita la gente … sembra che tutti sappiano che io devo essere lasciata sola quando sono giù. Scavalco una staccionata, perché non ho voglia di scovare l’entrata. L’erba è ancora umida. Faccio dei passi e mi fermo nel mezzo del parco. Giro su me stessa di trecento sessanta gradi ma tutto intorno, parla di abbandono. Intravedo un’altalena che spinta dal vento si muove da sola, scricchiolando. Mi sono sempre piaciute le altalene, e poi in questo momento sembra che stia proprio aspettando me. Lì da sola, a riposo dalle sue funzioni e anche malconcia. A pensarci bene un po’ mi assomiglia. Qui da sola, lontano da tutti e quindi a riposo dalle responsabilità e dalle maschere che indosso durante la giornata. Malconcia anch’io dentro, la parte di me meno visibile. Mi siedo e mi bagno i pantaloni. Inizio a dondolarmi da destra a sinistra, tenendo però i piedi ancora attaccati al terreno. Voglio sentirla dentro di me. Voglio percepire la sua anima e quando finalmente lei si sarà lasciata comandare, prenderò il volo! Metto le mani sulle corde e inizio a spingermi con i piedi. Piano piano, lascio che il vento gelato mi raffreddi la faccia. Accelero sempre di più. Mi accorgo che dal laterale degli occhi mi scendono delle lacrime. Sarà sicuramente il freddo. Mi fermo di botto perché non vedo più niente. Le lacrime mi stanno offuscando tutto e le mie mani non riescono più a tenere le corde dai sussulti che faccio. Piango, non so per quanto. Quando finalmente ritorno in me, mi accorgo che sono più tranquilla, anche se mi sento come un gommone che si è sgonfiato, dopo essere esploso. Anche l’altalena che prima a ogni passaggio del seggiolino indietro cigolava, ha smesso di lamentarsi. Mi do una spinta e riprendo la corsa. A ogni spinta mi sento meglio e l’altalena sotto di me, ubbidisce ai miei ordini. Ormai le nostre anime sono una cosa sola. Io rido come una bambina divertita dalla situazione, e anche lei non piange più, sembra aver trovato la forza di un tempo. Scendo con un salto, mi giro e la guardo. Va avanti a dondolare da sola ancora per alcuni minuti … fino a quando non si ferma. Resto immobile e la osservo. Tutte due abbiamo pianto e abbiamo trovato l’ impulso giusta per andare avanti … io nel mio cammino quotidiano lei nel suo dondolio. Avanti, indietro. Sì la vita è così, tu forse lo sapevi anche prima di me. Non sei tu che ti sei impossessata della mia anima, ma io della tua, tu lo sapevi! Avanti, indietro. Oggi sono andata indietro ma domani tornerò avanti!